POMERIGGIO D'AUTUNNO
 
Tutti quelli che hanno avuto la fortuna di frequentare le scuole elementari a Fallo, sicuramente ricordano che la riapertura dell'anno scolastico, per i ragazzi non sempre gradita per ovvi motivi, era legata anche particolari sensazioni che raramente potevano essere provate dai loro coetanei "cittadini". Il clima ancora abbastanza mite e le giornate che riservavano parecchie ore di luce, consentivano di fare le ultime scorribande nelle campagne circostanti e di giocare le ultime partite a pallone.
Tutto ciò, naturalmente, disertando volentieri i doveri della scuola che, anche se pochi considerando che si era ad inizio anno, erano rimandati alle ore serali.
In una di queste belle ed assolate giornate d'Ottobre me ne uscii un pomeriggio insieme a mia mamma e ad un'amica di famiglia per recarci a fare una passeggiata lungo la strada verso Civitaluparella portando con me un quaderno su cui avevo copiato i versi di una poesia da studiare a memoria per il giorno dopo. L'entusiasmo con cui avevo accettato di uscire con i "grandi", era pari a quello con cui avevo preso con me il quaderno su cui studiare, cioè nullo. Avevo ben altri progetti per quello splendido pomeriggio, ma mi toccò, mio malgrado, accettare quelle dure condizioni anche per scontare alcune, a mio avviso veniali, colpe.
La passeggiata non durò a lungo e, tornando verso casa, ci fermammo sulla "storica" roccia posta ai piedi del viottolo che dalla strada rotabile portava e conduce ancora oggi alla ancor più famosa "Planette di Aquiline".
Mia mamma e l'amica di famiglia iniziarono a discorrere del più e del meno di argomenti che certamente non riscuotevano il mio interesse e decisi così di aprire il quaderno per cercare di dedicarmi ad altri temi meno interessanti dei discorsi degli adulti ma che, purtroppo, non potevo esimermi di affrontare.
Il quaderno profumava di nuovo e, tra le sottili righe del foglio, con l'inchiostro azzurro, la mia incerta e già da allora orribile grafia aveva scritto sei versi. Lessi.
 
Un venticello d'autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso,
le portava a cadere, qualche passo distante dall'albero.
A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi,
brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte;
e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta
ne' campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza.
 
Sollevai gli occhi dal quaderno.
C'era una piacevole brezza leggera e più in là un albero che certamente non era un gelso, ma come nella poesia, spargeva le sue foglie nelle vicinanze.
Più in là ai due lati della strada l'autunno aveva dipinto i vigneti con tutte le gradazioni del giallo e del rosso.
Un lontano brontolio mi fece volgere lo sguardo verso il fondovalle: un trattore con l'aratro stava dissodando un campo che si stagliava bruno tra una striscia d'erba verdeggiante ed il giallo dell'incolta campagna circostante.
La leggera pioggia dei giorni precedenti aveva formato qua e là nei viottoli di campagna piccole pozzanghere che brillavano al sole che pian piano calava dietro ai Monti Pizi.Il paesaggio che mi circondava rappresentava tutto quanto era descritto nella poesia che dovevo studiare e mi dava le stesse sensazioni che certamente l'autore aveva voluto trasmettere a chi la leggeva. Lessi il brano altre due volte e da allora non lo dimenticai mai più.

Soltanto alcuni anni dopo da adolescente ed al secondo anno di scuole superiori scoprii che quei versi altro non erano che un brano tratto dal quarto capitolo de "I Promessi Sposi" di Alessandro Manzoni.

 
LO SPAZIO DI TUTTI