Il fenomeno dell'emigrazione, così ricorrente nel passato del nostro paese, è più che mai testimoniato da questo documento che vi proponiamo. Si tratta di una lettera del 1917 redatta da un ragazzo allora diciassettenne ed il cui analfabetismo, pressoché totale, è attestato dall'ampia gamma di strafalcioni grammaticali ed ortografici.
Certamente la necessità spinse il giovane ad allontanarsi dalla famiglia, ma la lettera, nonostante gli errori, esprime in ogni riga la nostalgia di casa, della famiglia, degli amici lasciati al paese e della volontà di farvi presto ritorno.
Si fa anche accenno ad un pacco inviato per le festività natalizie, come si usava a quei tempi, ed alla allora ragguardevole cifra di cinquanta lire spedite "alla famiglia" quasi dispiacendosi di non poter fare di più.
Dalle poche parole comprensibili del testo si riesce a fare un ritratto del suo autore: un bravo giovane lavoratore, ma purtroppo poco fortunato.
Il ragazzo, infatti, morì l'anno successivo: qualcuno dice di malaria, ma più probabilmente di tisi, malattia che, a quei tempi, mieteva molte vittime.
Le sue spoglie giacciono in una fossa comune nel cimitero di Fallo dove ancora oggi è visibile il cippo su cui era montata la croce. La morte lo colse all'età di diciotto anni il giorno 18 marzo dell'anno 1918 e forse questo ripetersi del numero diciotto fece sì che il suo nome fosse ricordato nel nostro paese ancora per molto tempo. |