Il caldo era spaventoso ed eravamo accaldati al limite del collasso, ma questo non impedì a nessuno di guardare verso quella palla di fuoco che dardeggiava in aria.
Cominciammo a stare meglio soltanto quando imboccammo il sentiero che scendeva verso il fiume ed iniziammo ad udire il rumoreggiare del Sangro. Giungemmo alla "Pantana" e, come sempre, fummo colpiti da quel senso di libertà e di spensieratezza che credo colpisca tutti quelli che si trovino a contatto con la natura selvaggia. È difficile per chi non conosce la "Pantana" comprendere appieno le sensazioni che il posto evoca: gli alberi, i pioppi, le piante acquatiche, la spiaggetta di ciottoli, il masso da tre metri, quello da cinque metri, la cascatella, i piccoli pesci, le rane che si tuffavano all'improvviso nell'acqua, i gamberi, le libellule ed il rumore dell'acqua talmente tante volte sentito che ti sembrava di notarne qualunque piccola variazione di tono.
I massi su cui di solito prendevamo il sole erano roventi e l'acqua limpida del fiume era troppo invitante perché noi ci si riuscisse a fermare: facemmo subito un bagno. Ripensandoci ora credo che fummo molto fortunati se nessuno di noi fu colto da un malore o da una congestione. In effetti, le condizioni c'erano tutte. Sguazzammo in acqua per molto tempo godendo della frescura finché qualcuno non cominciò a battere i denti per il freddo, quindi ci rifugiammo sulle rocce che fungevano anche da spogliatoio a prendere il sole.
Non restammo a lungo fermi, la giornata era ancora lunga ed il fiume particolarmente invitante: lasciammo gli indumenti sulle rocce e partimmo in direzione delle cascate. Erano piuttosto lontane dalla "Pantana", ma che importava? Ci stavamo divertendo e questo era quello che contava di più.
Attraversammo il fiume saltando sui massi che ormai conoscevamo uno ad uno e, immergendoci di tanto in tanto nelle pozze d'acqua che il fiume formava, arrivammo fino alle cascate. Il fiume Sangro cambia spesso fisionomia a causa delle piene, ma alcuni anni fa tornandoci, ho notato che le cascatelle, come le chiamavamo allora, erano ancora lì. Erano sempre in numero di tre e scaturivano sempre dalla stessa roccia sotto di cui potevi sederti per goderti un idromassaggio naturale.
Non ricordo quanto tempo restammo in quel posto d'incanto, ma rammento perfettamente la piacevole sensazione che l'acqua, forza della natura, ti dava sulla pelle quando cadeva dall'alto delle rocce. Ricordo che infilavamo la testa sotto le cascate e che l'acqua formava intorno al capo una specie di campana entro cui urlavamo cercando di superare il frastuono dell'acqua stessa.
Nessuno di noi pensò di guardare l'orologio (forse non l'avevamo neppure) e probabilmente quando ci riavviammo verso le rocce-spogliatoio-solarium era già tardi. Mentre raccattavamo i vestiti, il fiume cambiò voce. Inizialmente sembrava il rumore di un colpo di vento un po' più sostenuto del solito, poi divenne un brontolio profondo ed infine si trasformò in un rumore che conoscevamo bene: era una piena.
L'acqua ben presto ricoprì i massi su cui poco prima eravamo passati per attraversare il fiume ed il suo aspetto dal limpido passò al limaccioso. Noi restammo a guardarla in parte affascinati e forse in parte anche spaventati da quello spettacolo in cui la natura esprimeva il culmine della sua forza. Ricordo chiaramente che mi tornò in mente una frase di mio padre: acche e fuoche nin tè luoche (acqua e fuoco non hanno luogo) e che compresi esattamente cosa volesse dire.
Ben presto ci ritrovammo a tentare di attraversare il fiume tenendoci per le braccia e formando una catena umana da una sponda all'altra. I piedi poggiavano in modo instabile sulle rocce coperte dall'acqua tumultuosa proveniente dalla "Pantana" ed ogni tanto qualcuno perdeva la presa finendo nella pozza sottostante mentre gli altri cercavano di trattenerlo. Che divertimento!
Passò dell'altro tempo prima che ci stancassimo e decidessimo di tornare sulla roccia per asciugarci e riprendere il viottolo che risaliva verso la ferrovia. Probabilmente era già molto tardi, ma nessuno di noi se n'accorse tanto che ci fermammo a bere alla fontanella che si trovava poco più in là della vecchia stazione diroccata (ora scomparsa) ed a mangiare i gelsi alla solita pianta vicino al bivio. Era questo una specie di rito che si ripeteva quasi ogni volta che ci si recava al fiume. La pianta era cresciuta a ridosso di una roccia e per questo motivo era piuttosto facile arrampicarsi sui suoi rami. I frutti maturi si schiacciavano facilmente tra le dita ed il liquido rosso in essi contenuto tingeva qualunque cosa con cui veniva a contatto. Per risolvere questo problema si era soliti togliersi le magliette in modo da evitare che si macchiassero ed i frutti venivano mangiati portandoli alla bocca direttamente dal ramoscello su cui erano attaccati. Questa metodologia se da una parte risolveva alcuni problemi, dall'altra ne creava dei nuovi poiché si risparmiavano è vero le magliette, ma ci si sporcava lo stesso le braccia, le mani, la schiena ed ogni parte del corpo non coperta. Senza contare che, mangiando il frutto direttamente dal ramo, più di una volta avevamo ingoiato anche qualche ragno o formica di passaggio.
Nonostante questi accorgimenti, solitamente, scendendo dalla pianta di gelsi, eravamo talmente imbrattati di rosso da dare l'impressione di essere di ritorno da una carneficina. Era quindi necessario fare una sosta a "Lacariello" per darci una ripulita. Lo facemmo anche quel giorno, poi, ci avviammo verso Fallo. Ci accorgemmo che era quasi buio all'altezza de "La Madonnina" ed avemmo conferma del fatto che si era fatto tardi perché, superata la curva e guardando verso Colle Rosso vedemmo, affacciata alla ringhiera, troppa gente che guardava verso la strada e, in particolare, verso di noi.
Giunti all'altezza delle prime case di Fallo apparve sulla strada, con fare piuttosto minaccioso, un genitore di uno dei componenti il nostro gruppo. Seduta stante fece una ramanzina al figlio facendogli notare l'ora e ci fece capire che indirettamente era indirizzata anche a noi. Tutto ciò mentre, dalle scale che portano da Colle Rosso a Corso Umberto Primo, cominciava a scendere la torma inviperita degli altri parenti pronti a riversarci addosso la tensione di ore d'attesa.
La mente dell'uomo fortunatamente ha le sue difese naturali e penso che ognuno di noi abbia rimosso quello che accadde quella sera al nostro rientro a casa. Personalmente non ricordo nulla del dopo-fiume, ma senz'altro posso affermare che quella fu una delle più belle giornate trascorse al fiume Sangro.