Erano tempi duri. La famiglia già povera e numerosa (cinque figli) si era trovata ulteriormente in difficoltà con lo scoppio della guerra e io faticavo spesso a metter insieme il pranzo con la cena.
Naturalmente in casa mancava tutto e ci si doveva arrangiare con ciò che si aveva non solo per quanto riguardava il cibo, ma anche per cose di tipo pratico. Una volta risolti, si fa per dire, i problemi del mangiare e del vestire che erano di primaria importanza, restavano quelli legati alla reperibilità quotidiana degli utensili come, ad esempio, trovare un mestolo, una pentola, una scopa o anche semplicemente un pezzo di carta da involgere. Per sopperire a tali difficoltà, si confidava molto su quello spirito di adattamento e quell'arte di arrangiarsi a cui le ristrettezze dell'epoca ci avevano educato. Strumenti d'uso quotidiano, quindi, erano spesso utilizzati anche per scopi diversi da quelli per i quali erano stati creati.
Fu secondo questo modo di operare che, capitatami l'occasione di saponificare alcuni scarti di un maiale, misi a bollire tali avanzi in una delle poche pentole che avevo a disposizione. Una volta ottenuto il sapone, lo tolsi dalla pentola e cercai di lavare quest'ultima con la poca acqua di cui disponevo, riponendola poi insieme agli altri recipienti.
Dopo un paio di giorni ebbi la fortuna, perché allora di fortuna si trattava, di poter sfamare la mia numerosa nidiata con della pasta corta (li gnucchitte) di colore più tendente al grigio che al giallo. Tornata dai campi piuttosto tardi, accesi il fuoco e non appena l'acqua bollì, buttai dentro la pasta mentre i bambini già intorno al tavolo aspettavano quell'inattesa "abbondanza".
Soltanto quando la pasta era giunta ad un buon punto di cottura, mi resi conto che stavo utilizzando la stessa pentola che avevo usato per fare il sapone.
Il primo istinto fu quello di buttare via tutto, ma poi, vedendo la schiera dei miei figli come piccoli uccelli in attesa del pasto portato loro dalla madre (letteralmente: gnè li cillucce), me ne mancò il coraggio. Più e più volte mi affacciai sulla pentola che gorgogliava ed ogni volta, tra il vapore che ne fuoriusciva, mi sembrava di intravedere la schiuma del sapone. Anche quando misi la pasta nei piatti e la condii con l'olio mi sembrò che, rimestandola con il cucchiaio, formasse più schiuma del solito. Quando l'assaggiai non mi parve in verità di riscontrare nessun sapore strano, ma, nonostante i bambini l'avessero spazzata via in pochi minuti, mi restò lo stesso il dubbio.
Finita la frugale cena i piccoli cominciarono a ciondolare per la stanchezza ed io guardandoli cominciai a pensare che se fossimo andati a dormire subito, nel caso si fossero sentiti male io non me ne sarei accorta. Li esortai quindi ad uscire: - Picchè n'iscite na 'nzegne? Jiete a la piazze a jucuà! - (Perché non uscite un po'? Andate a giocare in piazza!).
Il più grande dei miei figli, probabilmente meravigliato da tanta disponibilità, guardandomi con aria preoccupata rispose: - A me mi tè suonne, i nin ci vuoglie i a la piazze! - (Io ho sonno, non ci voglio andare in piazza!)
- Mò a tte proprie massere ti te suonne? L'ieltre sere stive dafore fine a tarde e mò, massere, nin vuò ì manche a la piazze? - (Tu hai sonno proprio questa sera? Le sere scorse, restavi fuori fino a tardi e ora, stasera, non vuoi andare neanche in piazza?), replicai io preoccupata anche di quella sua strana sonnolenza.
Il battibecco durò ancora un bel pezzo ma riuscii a spuntarla e i piccoli, piuttosto a malincuore, scesero a giocare nella vicina piazza da cui tornarono dopo meno di mezz'ora quando ormai stavano crollando dal sonno.
Inutile dire che passai la notte a vegliarli ma, mentre loro dormivano beatamente, io sobbalzavo ad ogni cambio di ritmo del loro respiro. Passò un altro giorno di lavoro nelle campagne, un'altra notte e poi un altro giorno ancora ed alla fine mi convinsi che forse non era più il caso di preoccuparmi.
Seguì, stranamente per quei tempi in cui i bambini si ammalavano con molta facilità, un periodo in cui tutti i miei figli godettero di buona salute e spesso, tornandomi alla memoria l'episodio della pentola, dicevo a me stessa: - Vuò vidè ca è state lu sapone chi nin li fa ammalà chiù! - (Vuoi vedere che è stato il sapone che non li ha fatti più ammalare?).