Mio zio era considerato un tipo fuori dell'ordinario. Anche quando ormai era diventato vecchio, la gente ne parlava sempre con una punta d'ironia e con il sorriso sulle labbra ricordando probabilmente quello che era stato e quello che aveva fatto.
La sua vita da bambino di paese era trascorsa non certamente nell'agio, ma sicuramente in maniera molto migliore di tanti altri suoi coetanei. Rispetto a loro però lui aveva un qualcosa in più. Per esempio già da piccolo era un giocatore accanito. I giochi possibili erano molti, ma, visti i tempi, le carte da gioco non sempre erano reperibili o erano addirittura introvabili quindi ci si doveva accontentare di giocare "a lisce", "a stiglie", "a ppare e dìspare", eccetera. Certamente a Fallo non giravano soldi, ma con la fantasia e l'inventiva tipica dei bambini ci si poteva giocare di tutto. In particolare sembra che lui avesse una certa propensione alla raccolta dei bottoni: n'aveva di ogni tipo e dimensione e, quasi tutti, vinti a qualche malcapitato di turno. Non era difficile vedere ragazzetti in giro per il paese con le brache che si reggevano a stento o con la patta aperta e, il primo pensiero era: ha perso i bottoni giocando.
Lui ne era un vero e proprio collezionista. E lo era a tal punto che un giorno alla madre che gli chiedeva di badare al fratellino ancora in fasce nella culla, rispose indicando gli occhi del bambino: - I ti lu guarde, ma doppe tu ma da dà chille bittune chi te ecche. - (Io te lo guardo, ma tu dopo mi devi dare quei bottoni che ha qui). Da quel momento in poi l'ultimo nato o era guardato da qualcun altro o era lasciato solo.
Quando divenne più grande si distinse molto nell'arte della sopravvivenza. Erano tempi in cui le derrate alimentari e i prodotti della campagna erano tenuti sotto chiave in parte per essere rivenduti, in parte perché tale comportamento era insito nelle tradizioni familiari. "Il caveau" ero sito al secondo piano della casa in cui abitava tutta la numerosissima famiglia (una decina di persone in tutto, galline e cani esclusi) e la porta era sempre chiusa. Questo naturalmente non rappresentava affatto un problema per una persona piena di risorse come lui: procuratosi non si sa come un mazzo di chiavi arrugginite, riuscì a forzare la serratura della "stanza del tesoro" ed ogni tanto ci faceva una capatina. Scoperto casualmente da un membro della famiglia, non si perse d'animo e ben presto trovò la soluzione alternativa. Salendo in piedi sul davanzale del balcone posto al piano inferiore ed aggrappandosi alle sporgenze del muro, riusciva ad issarsi sino al terrazzino del piano superiore e da lì penetrare all'interno del "forziere". La lenta ma inesorabile emorragia di generi alimentari durò finché un passante non lo sorprese attaccato come un grosso geco contro la parete della casa ed avvisò la famiglia che fu così costretta a prendere i dovuti provvedimenti.
Non mancavano neppure gli scherzi perpetrati ai danni dei malcapitati o delle malcapitate di turno. Aveva una certa propensione nel frequentare la Valle Vecchia e fu proprio lì che una sera, accovacciato in un angolo buio (a quell'epoca non esistevano lampioni), si rizzò improvvisamente davanti ad una donna anziana di rientro a casa. La povera signora per poco non ci lasciò la pelle e da allora ogni volta che lo incontrava per strada si faceva il segno della croce mormorando: - Gesù, Giuseppe, Sant'Anne e Marie! - (Gesù, Giuseppe, Sant'Anna e Maria).
Come suo compagno di scorribande si era scelto un ragazzo di qualche anno più giovane di lui il quale spesso era oggetto delle sue angherie. Naturalmente, essendo lui più grande, si atteggiava già ad uomo navigato coinvolgendo nelle sue spacconerie il malcapitato ragazzetto.
Una delle cose più "da grandi" era certamente fumare. Le sigarette allora si vendevano "sfuse" oppure era possibile confezionarle da soli acquistando separatamente il tabacco e le cartine, ma certamente mio zio non era tipo da comprare qualcosa, lui, le fumose, se le "procurava". Ovviamente le sigarette erano tremendamente forti e, forse proprio per questo, avevano un'attrattiva in più.
Un giorno, mentre si trovavano in campagna e lui si atteggiava ad uomo fumando una sigaretta, il suo "scudiero", che non era mai stato fumatore, spalancando gli occhi gli chiese: - Mi fiè fa nu suspire? - (letteralmente: mi fai fare un sospiro?). A mio zio non sembrò vero e, porgendo la sigaretta al malcapitato, gli raccomandò di fare un solo tiro perché quella era roba forte per lui ragazzino. Il ragazzo, come probabilmente già previsto, aspirò profondamente. Fu colto da un accesso di tosse, spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi e cercò in qualche maniera di far capire che aveva bisogno d'aiuto. Probabilmente, nonostante la sua spavalderia, mio zio fu preso dal panico, ma non lo diede a vedere: con la massima disinvoltura, prese da terra una delle mele che avevano raccolto (non si sa bene al campo di quale malcapitato contadino) e la infilò nella bocca spalancata dell'amico.
Certamente fu per puro caso che il ragazzo non morì soffocato ed egli stesso, ormai in tarda età, narrava spesso di questa sua avventura, ma senza nessun rancore verso questo mio parente che, nonostante la sue "malefatte", ancora oggi rimane così vivo nella memoria degli abitanti di Fallo.