IL ROVO
"Li ruve": croce e delizia dei contadini. Chi ha frequentato anche soltanto per pochi anni la vita di campagna del nostro paese, sa quali e quante cruente battaglie sono da sempre state ingaggiate tra i coltivatori e quest'invadente pianta che, nonostante i continui tagli, continuava imperterrita ad impossessarsi del terreno lavorato. È anche vero che poi i suoi frutti erano utilizzati per scopi mangerecci (consumati appena colti dalla pianta o utilizzati per farne marmellate), ma questo, quando la pianta occupava le zone messe a coltura i contadini sembravano non ricordarlo.
E chi non rammenta "lu scuacciamurièchele" (letteralmente, schiaccia more)? Era una specie di frullatore di tipo artigianale formato da due canne una dentro l'altra. A quella esterna, più larga, era praticato un foro nella parte terminale. Le more erano poste all'interno di essa e, con quella più piccola, venivano schiacciate. Il succo, che fuoriusciva dal foro posto all'estremità, era o raccolto in un bicchiere o succhiato direttamente dalla canna stessa.
In tempi non recentissimi la raccolta delle more spesso era finalizzata all'alimentazione dei maiali anche se, considerando i tempi, non si sa quante n'arrivassero alle bestie e quante fossero mangiate da coloro che le raccoglievano. Probabilmente è di quei tempi il detto che recita "Doppe tante paripazzaje, mi so magniete 'na muiaje" (dopo tante peripezie ho mangiato una mora) riferito al fatto che finalmente dopo tanto tempo una questione particolarmente complessa si fosse risolta in maniera positiva. In questo detto, una particolare attenzione va prestata alla "licenza poetica" legata alla parola muiaje (mora) di probabile importazione dai paesi limitrofi in luogo del fallese "murièchele" e qui utilizzata proprio per fare rima con il verso precedente.
Sicuramente il selvatico rovo creava tanti problemi ai contadini, ma li ripagava con i suoi saporiti frutti. C'è un famoso detto (già citato nella sezione proverbi di questo sito) che recita: "Quant'e' bbone quann'e' fatte li murièchele di li fratte" (quanto sono buone quando sono mature le more dei cespugli), e che conclude "Quann'e' pronte fìchere e uve, li murièchele nin li vò nisciune" (quando sono pronti fichi e uva, le more non le vuole nessuno).
 
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