CACCIATORI
 

Fanny era la migliore cagna da caccia di tutte quelle che avevamo avuto fino allora.
In quel periodo, possedevamo altri due segugi maschi, ma nessuno di loro pareggiava Fanny nella punta delle lepri e nel riporto. Solo a lei era riservato il posto d'onore in casa: dormiva su una sedia e, a quei tempi, una sedia era un bene prezioso.
Era di piccola taglia, di colore fulvo e, naturalmente, non era di razza.
Spesso la notte la sentivamo guaire ed agitarsi: - Sogna di inseguire la selvaggina! - diceva mio padre.
A Fallo abitavamo in un gran fabbricato sull'attuale Via Duca degli Abruzzi e, pur avendo a disposizione una piccola stalla nel sottoscala della scalinata esterna alla casa, i cani da caccia dormivano in un angolo della cucina.
Essendo una famiglia di cacciatori, i cani andavano trattati con riguardo: potevano prendere freddo e rischiavano di ammalarsi di reumatismi. A caccia naturalmente ci si andava in qualsiasi periodo dell'anno, anche quando era chiusa e, spesso, qualcuno del paese, sorpreso a cacciare di frodo, non potendo permettersi il lusso di pagare la multa, aveva preferito farsi qualche giorno al fresco.

La mia, era una famiglia di cacciatori da generazioni e, naturalmente, lo era anche mio padre. I figli maschi non potevano essere da meno del capo famiglia e quindi, spesso, partivano tutti, la mattina prestissimo, per tornare di solito a tarda sera con i carnieri pieni. Cacciavano di tutto: quaglie, tordi, volpi, tassi, ma soprattutto lepri. Naturalmente chi guidava la battuta di caccia era il capo famiglia, sia per una questione di rispetto, sia perché considerato il più competente in materia.

Si era in pieno periodo di emigrazione e gli uomini di casa non erano quasi mai presenti: partivano per lunghissimi periodi e tornavano a Fallo saltuariamente.
Mio fratello quell'anno era tornato dall'America e, trovandosi in compagnia di mio padre e dell'altro fratello, decisero di partire per una battuta di caccia alla lepre.
Ovviamente la caccia era chiusa e per non destare sospetti, i tre smontarono i fucili e li nascosero nei canestri con le vettovaglie del pranzo che avevano caricato sul mulo.
A sera tarda ancora non erano tornati. Le donne di casa erano preoccupatissime, in particolare mia madre che sapeva quante volte il marito aveva rischiato di essere arrestato dalle guardie forestali.
Tornarono che era quasi buio e, mia madre, comprese subito che c'era qualcosa che non andava: i visi erano scuri e mio fratello appena entrato, posò il fucile in un angolo della cucina, si sedette su una sedia, disse solo la frase: - Era meglio che non tornavo! - e non parlò più per tutta la sera.
Mia madre, sempre più agitata, affrontò infine mio padre che, quasi piangendo le raccontò quanto era successo.
Avevano già ucciso una volpe ed un tasso e stavano avviandosi verso casa, quando Fanny da dietro un cespuglio "alzò" una lepre.
Mio fratello si trovava in groppa al mulo e vide in un istante la lepre e il cane come due fulmini uscire da un groviglio di rovi e ginestre.
Dalla posizione in cui si trovava prese la mira e sparò. Uno dei fulmini proseguì la sua corsa ed andò a nascondersi nel sottobosco, l'altro, quello rossiccio, guaì pietosamente, cadde su un fianco, si rialzò, corse ancora verso la lepre, si fermò, guardò verso mio padre, poi stramazzò a terra.
Così morì Fanny.
Per due settimane in casa si parlò poco e non si andò a caccia.
Poi, mio padre, si procurò un'altra cagnetta, fulva, di piccola taglia, non di razza: la chiamò Fanny, ma non era la Fanny che tutti conoscevamo e che ancora oggi ricordiamo.

 
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