Questo spassosissimo ipse-dixit ci obbliga a dilungarci sulla descrizione di una figura notissima alle persone più anziane di Fallo: Pumpare.
Era costui un emarginato senza fissa dimora che viveva della carità della gente. I pochi paesani che potevano, spesso l'avevano accolto in casa e lo avevano rifocillato. Probabilmente nessuno conosceva quale fosse il suo vero nome: tutti lo chiamavano Pumpare. Forse ciò era dovuto al fatto che spesso declamava versi o cantava canzoni senza senso inframmezzandole sempre con lo stesso ritornello: - Pumpare e une, Pumpare e ddù, Pumpare e tre... - In questo suo intercalare era solito colpirsi la coscia destra con il pugno chiuso come a voler suonare un tamburo. L'arto, ripetutamente percosso, presentava quindi sempre un grosso livido che, in pratica, non guariva mai.
Più di una volta abbiamo affermato che il nostro è stato da sempre un paese d'emigranti e, di conseguenza, era facile che gli uomini partissero per il Nuovo Continente in cerca di fortuna. Spesso, purtroppo, non davano più loro notizie e le mogli restavano sole e, di frequente, con dei figli da mantenere. Sulla base dei racconti fatti dagli anziani, sembra che una di queste donne "abbandonate" dal marito non si fosse preoccupata molto della scomparsa del consorte ma anzi n'avesse approfittato per darsi alla pazza gioia consolandosi con un più giovane "cavaliere".
Pumpare, non si sa se per sua iniziativa o se imbeccato da qualcuno, mise "in rima" tutta la vicenda con le poche parole sopra citate. Per parecchio tempo lo si vide girare per il paese, picchiandosi la coscia con il pugno e ripetendo la cantilena: MARÌTEME È JUTE A L'AMÈRICHE E NIN MI SCRIVE, SIGNACHE CA QUACCHE COSE CIADDA ESSERE E GNÀCCHETA NZIRE NZIRE E MORE E VIECCE SERE MATINE E ORE (mio marito è andato in America e non mi scrive, vuol dire che qualche cosa ci deve essere e gnàccheta nzire nzire e more e vienici la sera, la mattina ed ora).